Volare dalla cornice

Precipito a testa in giù nel bianco, solo la consapevolezza della neve, che entra dal colletto e riempie gli occhiali, mi da l’idea della direzione di marcia; capisco che la neve è morbida perché la sto arando con il mio corpo, con la mia testa e con la mia faccia; il pendio è ripido perché prendo velocità nonostante la neve profonda e consistente.

 

Finalmente gli sci si posizionano ortogonali al pendio, sopra la mia testa … di solito succede perché fanno più attrito del corpo, ma mi sembra che ci mettano un’eternità. E’ il momento giusto: raggruppo le gambe e riesco a fare una sorta di capriola, rotolandomi di fianco. Gli sci mi passano sopra con un movimento circolare e atterrano sotto di me dando una botta secca nella neve fonda. La caduta si arresta, ma sono attimi di terrore. Non mi sono spaventato quando mi è mancato il terreno sotto i piedi o mentre scivolavo, forse non ne ho avuto il tempo. Ma ora ho paura di vedere la crepa di un lastrone che si apre davanti alla punta dei miei sci e la zolla che, smottando, mi travolge. La neve è profonda, sono su un pendio sottovento e inclinato almeno a 35°, ma fortunatamente non succede niente.

 

Mi raddrizzo dalla posizione quasi fetale, istintiva, assunta per proteggermi dai colpi e guardo in su: la neve è ferma, c’è solo il solco che ho lasciato io cadendo nella farina, ma non si vedono le preoccupanti linee orizzontali o, peggio, seghettate tipiche del lastrone che sta per staccarsi, ancora fortuna; la cornice non è aggettante, ma è un muro dritto di circa un metro di altezza, verticale, compatto e stabile, non mi è caduta addosso e non cadrà ora per via della sua forma, un altro colpo di fortuna!

 

Da sopra Eugenio mi grida “tutto bene?” “Si”, millanto io e gli faccio cenno di andare. E’ vero, le gambe e le braccia sono a posto, non ho preso nessuna botta significativa, non ho neanche un graffio; tutto si è svolto talmente in fretta che sono scivolato al massimo per una ventina di metri. Ma ho paura, paura di muovermi in questo ripido lattiginoso che mi avvolge e di cui capisco la pendenza solamente dalla differenza di posizione dello sci a valle rispetto a quello a monte. Sopra vedo la cornice e la linea di cresta per una decina di metri, sotto e di lato nulla, nessun riferimento, zero assoluto.

 

So che la piana, con le sue dolci ondulazioni, è vicino, non possono essere più di cento metri di dislivello, ho fotografato il versante con la mente mentre salivo; ho visto anche che non ci sono salti o rocce affioranti, eppure sono paralizzato dalla mancanza di visibilità, dalla paura di finire su un costone appena più ripido dove possa essere più facile un distacco. A volte bastano pochi gradi di pendenza in più, una piccola”pancia” che favorisca lo slittamento degli strati. Sono vicino, vicinissimo alla “zona di sicurezza”, ma per regolarmi dovrei fare le curve guardando in su, dove ho ancora un riferimento, sebbene labile.

 

Valuto di levarmi gli sci e risalire sulla cresta; ma la cresta oggi, unita alla nebbia, mi ha giocato un “tiro mancino”: per quanto piano andassi, per quanto attento fossi a riportare il nostro gruppetto fuori dai pericoli di un percorso facile (di solito), ma reso insidioso dal ghiaccio, cresta e nebbia mi hanno “fregato”e mi hanno fatto confondere il bianco del vuoto con neve fresca riportata dal vento a monte. E così lo sci di valle, che io credevo di monte, si è ritrovato nel vuoto, la gamba dell’altro sci, colta di sorpresa, non è riuscita a reagire e sono finito giù dritto in piedi come un personaggio dei cartoni animati. Poi, completamente squilibrato, toccando il pendio sottostante, sono stato catapultato a testa in giù e ho cominciato a scivolare …

 

Continuo ad avere paura e mi levo uno sci, riluttante sia a scendere che a risalire. Non ho voglia di riprendere la cresta, a rischio di fare un altro passo falso, e non ho voglia di scendere completamente al buio. Sopra la cresta ostile e sotto l’ignoto. Passano i minuti e finalmente il vento mi porta le voci di Eugenio e Marta che immagino al sicuro; “almeno loro sono arrivati in porto” penso tra me e me. Intanto rimango con uno sci in mano, lo sci di valle ben assestato nella neve e il piede di monte già piantato per la risalita … passano altri minuti nei quali continuo a valutare tutte le ipotesi che mi passano per la mente.

 

Finalmente il vento, che si è preso gioco di me per buona parte delle giornata, prima sollevando un po’ le nuvole e inducendomi a tentare, poi avvinghiandomi nella nebbia più fitta a poche decine di metri dalla vetta, tanto da rinunciarci, finalmente il vento mi è amico e mi concede qualche secondo di visibilità. Vedo una roccia a pochi metri da me e i contorni dei dossi sfumati in basso, individuo la geometria del pendio e capisco che, laddove è un po’ meno ripido, ce la dovrei fare a scendere incolume.

 

In un momento sono pronto e parto deciso anche se la scena si richiude. Sono consapevole cha basta anche un piccolo distacco a seppellirmi completamente, 30 cm di spessore per 20 metri di larghezza e 70 di lunghezza (tanta è la distanza che mi separa dal piano) fanno comunque parecchi metri cubi, ma valuto le attenuanti: se il pendio ha retto prima, dovrebbe reggere a maggior ragione dove è un po’ meno ripido; ho l’ARVA e gli amici a pochi minuti di distanza; ho fifa, ma mi accollo il rischio e cerco di scendere più rapidamente possibile.

 

E sono le gambe a condurmi fuori dai guai, le gambe e i miei meravigliosi sci; senza vedere più nulla scendo affidandomi ad essi, praticamente ad occhi chiusi. Per fortuna sono solo poche decine di metri; a metà pendio esco sotto la nuvola e ci vedo bene, anche se senza ombre: Divento euforico e tiro via una curva dietro l’altra con i quadricipiti in fiamme e il fiato corto; ho ancora paura di sentire quel rombo sordo che non voglio sentire. Sto scappando come una furia anche se razionalmente lo so che le probabilità di distacco ormai sono molto scarse. La neve è meravigliosa, profonda e farinosa come se fosse inverno su questo fazzoletto esposto a nord est; eccomi sulla piana, faccio ancora qualche metro e salgo su un dossetto per allontanarmi da eventuali pericoli a “scoppio ritardato”.

 

Tiro il fiato e controllo i danni: addosso nemmeno un graffio, come mi immaginavo; mi sfilo lo zaino e mi accorgo che la piccozza penzola in maniera strana; nell’impatto a testa in giù si deve essere infilata con la punta nella neve e ha strappato uno dei fermi superiori fatto di elastico. Mentre la sistemo, arrivano gli altri; Marta mi abbraccia a lungo e si illumina in viso vedendo che sono tutto intero. Con Eugenio basta uno sguardo che sintetizza il cameratismo virtuoso instauratosi tra di noi da tempo.

 

Poi minimizzo “tutto a posto, è stata una passeggiata di salute” e ci avviamo, felici per lo scampato pericolo, sugli ondulati pendii di neve, ora dolcemente primaverile, della via di ritorno.

 

 

Piana dei Biscurri – Cresta Nord della Meta

 

1° Aprile 2013

 

Un giorno molto fortunato